Un povero di nome Lazzaro stava alla sua porta
XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno C)
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti.
Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo.
Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui.
Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”.
Ma Abramo rispose: “Figlio, ricordati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.
Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”.
E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”.
Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”.
E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”.
Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
Commento a cura di Ferdinando Caschili
Il brano del Vangelo di questa domenica, 26ma del T. O., si conclude con un’immagine certamente spaventosa; l’eternità segna un’insuperabile divisione tra i due protagonisti dell’insegnamento proposto da Gesù ai farisei.
«Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi». Potremmo porci la domanda: quel «grande abisso» compare all’improvviso oppure è semplicemente la ratifica di un fossato che lentamente si è formato durante il tempo della propria esistenza terrena?
Lo sviluppo della vicenda ci aiuta a comprendere quanto illustrato dalla pagina evangelica.
Un povero di nome Lazzaro.
I protagonisti sono due: un mendicante, di nome Lazzaro, siede alla porta di un uomo ricchissimo; questi vestiva sontuosamente, con vesti di tessuti regali e banchettava ogni giorno; il povero Lazzaro sperava di poter agguantare almeno quei tocchetti di mollica di pane con cui i ricchi si pulivano le dita gettandoli poi in terra.
Se domenica scorsa abbiamo sentito del confronto tra «i figli della luce e i figli delle tenebre», oggi il paragone è ancora più impietoso: i cani, che vengono a leccare le piaghe del povero Lazzaro, sembrano più sensibili del ricco epulone che neppure si accorge della sua presenza; c’è dunque «un abisso» già scavato nel tempo tra il ricco, barricato nella fortezza della sua opulenza, che genera una spaventosa insensibilità, e il mendicante che spera di ricevere qualcosa.
Il testo richiama la realizzazione delle beatitudini e dei guai annunciati da Gesù: «Beati voi che ora avete fame, perché sarete saziati. Guai a voi che ora siete sazi, perché avrete fame (cfr Lc 6, 21.25)».
In scena all’improvviso compare il convitato di pietra: la morte e la scena cambia radicalmente.
Muore il povero mendicante e muore anche il ricco; nell’eternità, le parti sono invertite.
Lazzaro, dopo tanto soffrire, può riposare nel seno di Abramo, immagine della beatitudine eterna mentre il ricco epulone è nei tormenti, immagine dell’inferno e tra le due condizioni non è possibile nessun passaggio: è il grande abisso.
Il ricco, resosi conto del baratro costruito durante la sua esistenza terrena, implora Abramo di inviare Lazzaro dai suoi fratelli; è curioso, ora si affida a colui di cui non si è mai accorto durante la sua vita terrena.
Un povero di nome Lazzaro.
La visione di un morto che viene dall’eternità potrà indurli sulla via della conversione, ma Abramo ricorda che questa non può essere sostenuta da fatti eclatanti, quanto piuttosto da quel lento, diuturno lavorio, che solo la parola di Dio è capace di realizzare nella nostra vita.
Tempo ed eternità sono inscindibilmente intrecciati: l’eternità si costruisce nel tempo.
Per concludere mi sembra importante ricordare quanto leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica: «Non possiamo essere uniti a Dio se non scegliamo liberamente di amarlo. Ma non possiamo amare Dio se pecchiamo gravemente contro di lui, contro il nostro prossimo o contro noi stessi: “Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna” (1 Gv 3,14-15). Nostro Signore ci avverte che saremo separati da lui se non soccorriamo nei loro gravi bisogni i poveri e i piccoli che sono suoi fratelli» (1033).
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