Siamo cercatori di senso prima che lavoratori La pandemia come occasione per ripensare il lavoro
La tragedia della pandemia che abbiamo vissuto in maniera acuta nei mesi scorsi e che ancora stiamo vivendo per i suoi duraturi riflessi sulla quotidianità di ciascuno di noi è stata, per molti versi, anche una occasione propizia per una riflessione approfondita e per l’animazione di un dibattito pubblico su alcuni temi cruciali del nostro presente: la tutela della salute, innanzitutto, vista sempre più come un bene comune globale e non solo come una faccenda privata, ma anche il tema del lavoro, delle sue modalità, del suo significato, ha ricevuto un’attenzione, per molti versi, inedita.
Il lockdown ha portato milioni di persone, dall’oggi al domani, ad una trasformazione radicale del loro modo di lavorare, con conseguenti disagi e difficoltà, ma, non di rado, anche con la scoperta di nuove prospettive di miglioramento e sviluppo.
Oggi non possiamo più limitarci a pensare che problemi del lavoro riguardino solo la sua mancanza, non possiamo più solo distinguere il lavoro a tempo indeterminato (che si riduce) da quello a tempo determinato (che cresce), o quello a tempo pieno da quello a tempo parziale. Occorre pensare al lavoro nel suo senso più profondo: il lavoro fatto con gli altri e per gli altri.
Tutte quelle attività che contribuiscono a produrre e a condividere valore per la società, che costruiscono senso di appartenenza e di utilità all’interno delle comunità di riferimento, autostima e vero senso di soddisfazione, in definitiva un lavoro capace di generare significato esistenziale. E su questo punto non tutti i lavori sono uguali.
I dati a livello internazionale e nazionale ci dicono che crescono coloro che, soprattutto tra i giovani, sono convinti che il loro lavoro sia socialmente inutile e perfino dannoso.
Non solo perché si parla di «sin industries», armi, azzardo, industrie altamente inquinanti, etc. ma anche perché sono ancora troppi i lavori profondamente alienanti, concepiti considerando il lavoratore come un mezzo e non un fine in sé, e la sua fatica come una merce da acquistare e non un «bene» da riconoscere e valorizzare.
È vero che la riduzione del tasso di disoccupazione in Sardegna, 4,3% in meno rispetto all’anno scorso, l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro, soprattutto delle donne (+4,4%) e la crescita del tasso di attività (+0,9%), sono tutti segnali positivi, ma è altrettanto vero che questa dinamica, con tutta probabilità, verrà messa in discussione dallo shock esogeno dovuto alla pandemia.
Non dovremmo farci sfuggire questa occasione di «stop-and-go», questa agognata ripartenza, per ripensare, imprese, pubblica amministrazione, sindacati, insieme, non solo alla produzione di una maggiore «quantità» di lavori, ma soprattutto ad un maggior numero di lavori di «qualità», più rispettosi della nostra profonda natura di cercatori di senso.
Il lavoro e soprattutto un lavoro generativo di significato non può più essere considerato un lusso per pochi.
Alla base di questo cambiamento è necessario porre un radicale cambiamento culturale, capace di porre il lavoro, nella sua dimensione creativa in quella posizione di centralità nella vita dei singoli e delle comunità, che gli spetta, non solo come strumento e mezzo di sostentamento, ma ancor prima come «bisogno vitale dell’anima umana» (Simone Weil).
Su questo versante del cambiamento culturale nessuno può sentirsi esente da responsabilità: la scuola, l’università, il mondo dell’associazionismo, la Chiesa.
Siamo cercatori di senso prima che lavoratori, ma siamo cercatori di senso anche nel nostro lavorare; a volte, soprattutto, nel nostro lavorare.
In questa fase di ripartenza sarebbe bene tenerne conto, perché il peggiore degli errori che potremmo compiere è cercare di ritornare indietro ad un mondo pre-pandemia, a quel mondo che la pandemia l’ha prodotta, invece di cogliere questa occasione epocale per andare avanti; velocemente e convintamente, avanti.
Vittorio Pelligra – Docente di Politica Economica – Università Cagliari
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