Prendersi cura della persona nella sua globalità Una riflessione alla luce dell'intervento del Papa sul fine vita
Dal 16 al 17 novembre si è svolto, in Vaticano, un Meeting sulle questioni riguardanti il «fine vita». Il messaggio che il Papa ha inviato ai partecipanti è stato presentato da più di un giornale come una «sua svolta» rispetto alle posizioni tradizionali della Chiesa in materia.
Nulla di più falso. Si tratta della solita strumentalizzazione volta non solo ad accreditare una mentalità «eutanasica», ma anche a «seminare zizzania» nella Chiesa. Basta semplicemente leggerlo, quel messaggio, per vedervi citati esplicitamente l’insegnamento di Pio XII (1957), della Congregazione per la Dottrina della Fede (1980) e del Catechismo (1992).
La vita e la salute sono valori fondamentali, che bisogna promuovere e salvaguardare sempre, fino alla fine. Ma, appunto, dobbiamo pure accettare che tale fine esista, che questi beni siano fragili, caduchi, limitati, finiti. Le odierne capacità tecniche della medicina sono capaci di sostituire le funzioni di vari organi e di protrarre anche processi meramente biologici, per cui – ammonisce il Papa – «oggi è più insidiosa la tentazione di insistere con trattamenti che producono potenti effetti sul corpo, ma talora non giovano al bene integrale della persona». Proprio il riferimento alla persona nella sua globalità e individualità, alla salute in senso pluridimensionale, deve porsi a fondamento della valutazione di proporzionalità (e bontà) di una terapia.
Nella scelta/rinuncia degli interventi medici e dei mezzi terapeutici si dovranno prendere in considerazione non solo la loro disponibilità e facilità di impiego, ma anche il grado di efficacia sperato, la penosità (non solo fisica, ma anche morale e psicologica) che comportano per il paziente stesso, i rischi per la vita o le possibili menomazioni psichiche e fisiche conseguenti, i costi, sia come risorse economiche che di persone coinvolte. Ciò comporta un discernimento, in ciascuna situazione, che coinvolge tutti gli attori e, se di regola è giusto lasciare la decisione ultima alla coscienza del malato, questa dovrà essere rispettosa anche della coscienza dei medici e dei loro doveri deontologici. Una terapia ritenuta inizialmente proporzionata può, in base alle mutate condizioni del paziente, diventare sproporzionata o inutile, rendendo lecita la sua interruzione. In tal modo si evita quell’accanimento terapeutico che tanti temono e che anche la Chiesa nettamente disapprova. Una considerazione a parte meritano l’idratazione e l’alimentazione artificiali, che non sono in realtà terapie (non sono tese a guarire alcuna malattia) e quasi mai sono inutili e dolorose, se non in casi estremi.
Fino a quando l’organismo non diventa incapace di assorbire sostanze nutrienti e liquidi, questi, che sono elementi fondamentali e necessari per la vita di tutti, sono sempre proporzionati e capaci di alleviare la sofferenza totale. La loro sottrazione conduce inevitabilmente, e direttamente, alla morte per fame e sete. Si tratta dunque di una forma di eutanasia omissiva, simile alla sottrazione di altri presidi salvavita, come quelli per la respirazione artificiale.
L’accanimento terapeutico e l’eutanasia sono espressione della stessa pretesa di dominio sulla vita, che porta prima a confidare ciecamente nelle possibilità tecnico-scientifiche per passare, nella disillusione, alla attiva accelerazione della morte. «Se sappiamo che della malattia non possiamo sempre garantire la guarigione – dice il Papa – della persona vivente possiamo e dobbiamo sempre prenderci cura: senza abbreviare noi stessi la sua vita, ma anche senza accanirci inutilmente contro la sua morte».
Stefano Mele – Docente di Bioetica Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna
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