Ogni tralcio che non porta frutto, lo taglia
V Domenica di Pasqua (Anno B)
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».
Commento a cura di Davide Meloni
Portare frutto, servire a qualcosa, non vivere inutilmente.
Non è forse uno dei desideri più grandi e più radicati in noi esseri umani?
Nel Vangelo della V Domenica di Pasqua Gesù sembra prendersi a cuore questo nostro anelito profondo e ci indica la strada per portare veramente frutto nella vita.
Lo fa riprendendo dall’Antico Testamento l’immagine della vite.
Uno dei brani più significativi a questo riguardo è quello di Isaia 5,1-7, in cui il profeta racconta di come Dio pianti una vigna, aspettandosi da essa uva buona, ma ottenendo purtroppo solo uva immangiabile.
Isaia stesso ci dice che la vigna è Israele, popolo scelto per collaborare all’opera di salvezza di Dio per tutto il genere umano.
Gesù riprende questo insegnamento riferendo a sé l’immagine della vite: «Io sono la vite vera».
Lui stesso è lo strumento dell’attuarsi del piano di salvezza di Dio, un piano destinato a raggiungere gli esseri umani di tutti i tempi.
Per raggiungere tutti Cristo sceglie alcuni, i suoi, perché insieme a lui portino frutto, e spiega quale è in fondo l’unica condizione perché questo avvenga: rimanere in lui.
Tante volte concepiamo l’utilità della vita in termini efficientisti, quasi che il portare frutto sia una questione di risultati da ottenere, di successi da mietere, di opere a cui poter associare il nostro nome perché altri le possano ammirare.
E così ci pieghiamo alla sapienza del mondo, secondo cui l’utilità della vita dipende in fondo dalla nostra buona volontà, dal fatto di mettercela tutta per lasciare il nostro segno nel mondo.
Gesù ci indica un’altra strada, quella dell’appartenenza, di una amicizia a cui partecipare, di un compito comune da condividere con lui.
Stare in Cristo, vivere con cordialità e con tenacia l’amicizia con lui è la strada della vera fecondità della vita. Solo così possiamo portare veramente frutto, il suo frutto.
Non è un caso che Gesù usi l’immagine dell’uva, da cui si produce il vino. Il riferimento all’eucaristia è evidente.
Nel pane e nel vino Gesù continua a donarsi a noi e ci chiama alla comunione con lui.
Paragonandoci ai tralci che stanno attaccati alla vite, Gesù ci sta dicendo che il frutto che porteremo è quell’amore che lui stesso ha vissuto fino in fondo dando la vita per noi.
Restando in lui anche noi partecipiamo di questo stesso amore, anche noi diventiamo dono al mondo.
Va anche precisato che questo rimanere in Cristo è un atteggiamento personale ma non solitario.
Non si appartiene ad un Gesù astratto, immaginato da noi. Lo stare in lui è sempre veicolato da un’effettiva esperienza di comunione ecclesiale.
Altrimenti restiamo rami secchi, che non servono a niente se non ad essere gettati nel fuoco.
È questa la sfida che abbiamo sempre davanti: vivere una comunione ecclesiale che sia testimonianza della vita nuova che lui ci comunica continuamente, proprio come la vite che trasmette la sua linfa vitale ai tralci.
Viceversa, quando la fede viene vissuta in modo individualistico diventa sterile, non testimonia più la vita nuova, cioè la comunione, e finisce per apparire come un’impalcatura di verità astratte, di leggi morali, di riti incapaci di dare veramente senso alla vita.
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