Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?».
E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette. Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito.
Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”.
Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito. Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto.
Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”.
Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
Commento a cura di Enrico Murgia
I lettori e gli ascoltatori attenti del Vangelo odierno vengono sollecitati dall’accenno al giudizio ultimo, tema severo e costante di Matteo.
Sanno di trovarsi come debitori che vivono della misericordia del Padre. Pietro chiede al Signore quante volte dovrà perdonare al fratello che pecca contro di lui. Indica una misura generosa, sette volte.
Pietro sceglie di farlo, ma fino ad un certo punto. Vuole un limite per poter accettare più facilmente il sacrificio del perdono. Sì: il perdono è incomprensibile per la nostra giustizia. È ingiusto. Chi mai può meritare il perdono?
Gesù non lo condiziona a niente: ci perdona e basta.
Perché condonare i debiti? Se io perdono oggi, l’altro peccherà ancora contro di me o contro gli altri. Non ho garanzie!
Facilmente l’aver subito un torto ci fa sentire immediatamente in diritto di essere maestri e giudici degli altri, implacabili difensori della giustizia.
Perdonare appare un’evidente debolezza, come se non fossimo capaci di reagire o di ricordare.
Pensiamo che ci renda vulnerabili, tanto che l’altro se ne può approfittare.
Finiamo per sacrificare amicizie e legami, anche profondissimi, pur di non perdere le nostre ragioni.
Nel perdono c’è sempre qualcosa di ingiusto. Come l’amore. Ma che cosa cambia il cuore degli uomini e lo libera dal male?
L’amore – sapiente, intelligente, forte, appassionato, personale, non ridotto a sentimento superficiale, povero di vita e di cuore – oppure la giustizia?
Il perdono non cancella il passato, non è fare finta nel presente. Gesù non chiude gli occhi sul nostro peccato, piuttosto riconosce il male, lo rifiuta e ci insegna a non accettarlo per la nostra vita, anche nelle cose piccole. Per questo perdona, anche dalla croce. Spesso siamo come il servo spietato del Vangelo. Forse aveva accumulato quel debito enorme pensando che poi nessuno gliene avrebbe chiesto conto.
Forse contava sulle sue capacità e poi si era ritrovato alla fine vittima di un meccanismo più grande di lui.
Quel padrone inizialmente agisce con giustizia e punisce il servo. Che cosa doveva fare? Non si vendica, e pur sapendo che era impossibile saldasse il debito, lo vuol mandare in prigione finché non avesse restituito il denaro. Ha ragione, ma non basta la giustizia.
Di fronte alla preghiera di quell’uomo ha pietà. Dona ancora fiducia ad un servo imbroglione o incapace. Condona.
Per questo, il perdono è permettere di vivere, di riscattarsi. Non gli toglie il futuro, ha fiducia. Come fa con noi, anche quando noi stessi pensiamo non sia giusto essere perdonati e siamo rassegnati, ma quel servo dimentica subito. Non è riconoscente perché pensa che tutto gli sia dovuto. Proprio lui, non fa agli altri quello che ha voluto fosse fatto a sé.
Quando ci confrontiamo con la nostra debolezza capiamo quanto è grande l’aiuto profuso da Dio.
È infatti l’umiltà a farci trovare il cuore capendo la grazia del perdono
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