Manovra finanziaria del Governo in fase di revisione Continua il lavoro di modifica del provvedimento economico finanziario
La manovra del governo giallo-verde, come nel Gioco dell’oca, torna al via. Approvata dalla Camera con un voto di fiducia, al Senato dovrà essere rivista profondamente, a partire dai suoi «saldi di bilancio», depurandone la marcata componente propagandistica «post» (rispetto al voto italiano del marzo scorso) e «pre»(rispetto alle europee del 2019) elettorale.
Con il primo calo dell’attività economica (-0,1%) dopo un periodo di espansione protrattosi per quattordici trimestri, infatti, il pilastro della Legge di bilancio 2019, quell’1,5% di crescita fissato nella Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza e ostinatamente difeso in ogni sede fino allo scontro in quella europea, è destinato a sbriciolarsi.
Se già prima poteva essere considerato un miraggio, adesso è una chimera. Il rapporto deficit-Pil è destinato dunque ad aumentare più del previsto, facendo salire ulteriormente il debito.
Eppure i segnali del rallentamento erano evidenti già a settembre, quando si è iniziato ad aggiornare il Def. Visibili a casa nostra, ma soprattutto oltre confine, a causa della guerra commerciale a livello globale e della politica monetaria restrittiva della Federal Reserve negli Stati Uniti di Donald Trump.
Nonostante ciò, una Manovra finanziaria presentata come espansiva, destina l’80% della maggior spesa pubblica (in deficit) alla spesa corrente e solo il 20% e quella in conto capitale e cioè agli investimenti. Difficile che una minuscola riduzione delle imposte – destinata solo alle partite Iva – dia un forte impulso alla crescita.
Ma è il disegno complessivo – la visione elettorale, come si diceva – che sottende l’azione di governo a impedire il pur dichiarato intento di garantire e tutelare, «oltre il Pil», termometro comunque fondamentale, la coesione sociale di un Paese che il Censis ha appena descritto come «deluso e incattivito».
Le due misure cardine della manovra alimentano e non riducono gli squilibri in tal senso.
Il Reddito di cittadinanza, oltre a una sperequazione geografica tra Nord e Sud, rischia di confondere interventi sociali e politiche attive del lavoro: meglio sarebbe stata una de-contribuzione mirata per le assunzioni affiancata da un potenziamento dell’attuale Reddito d’inclusione per il contrasto alla povertà.
La riforma delle pensioni esaspera invece il conflitto generazionale, visto che il conto lo pagheranno i giovani.
La flat tax selettiva finirà per premiare solo autonomi e mini-imprenditori – e alimentare l’elusione oltre una certa soglia di reddito – lasciando dipendenti e pensionati alle attuali aliquote Irpef progressive e le famiglie prive di quel quoziente che avrebbe pure iniziato, magari, a temperare il drammatico inverno demografico. E se nei primi tre mesi pieni di vigenza del decreto Dignità, che ha irrigidito il mercato del lavoro, l’occupazione è calata di 40mila unità, gli effetti sul tessuto sociale del decreto «Sicurezza e Immigrazione» non tarderanno a manifestarsi in tutta la loro forza lacerante: nell’aumento immediato degli immigrati irregolari e nel depotenziamento di quella rete civile di occupazione, formazione e integrazione che si era costituita intorno agli Sprar in dismissione.
Senza riaprire per altro il canale dei flussi lavorativi – la Germania sta addirittura pensando di potenziarlo – che per anni ha costretto operai agricoli, colf e badanti in primis a chiedere «protezione umanitaria» per risultare occupati regolari (e pagare le tasse).
Ma per tornare a crescere l’Italia non può che aprirsi, includere, generare.
Marco Girardo – Caporedattore redazione economica «Avvenire»
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