Il «manuale» per i lavori della Settimana sociale Ecco la sfida: superare la rassegnazione e progettare nuovi modelli di vita, di economia e di lavoro
Lo scorso 7 settembre il Comitato scientifico e organizzatore della 48ma Settimana sociale dei cattolici italiani ha consegnato il «manuale» per lo svolgimento dei lavori nei quali saranno impegnati, a Cagliari, gli oltre mille delegati provenienti da tutta Italia.
Si tratta di un documento (tecnicamente definito «instrumentum laboris», appunto, strumento di lavoro) più ampio ed esaustivo delle «linee di preparazione», pubblicate lo scorso mese di marzo. Si tratta di 75 articoli che presentano la filosofia e il metodo delle prossime giornate cagliaritane, tutte orientate a porre al centro, non solo della discussione, ma anche della proposta e dell’azione, il tema lavoro.
Si tratta di una vera propria sfida che si articolerà, come si è detto più volte, secondo i «registri comunicativi» dell’ascolto, della denuncia, della raccolta di buone pratiche e della formulazione di proposte concrete.
Il tema del lavoro, con tutte le inedite novità che lo caratterizzano negli ultimi decenni, risulta piuttosto complesso. Ma una particolare consapevolezza tende a emergere fra le tante. Parlare di lavoro significa porre al centro l’uomo. L’uomo nella sua singolarità e nella sua componente relazionale e sociale.
Per questo motivo si insiste sul fatto che il lavoro debba essere libero, creativo, partecipativo e solidale. Per essere libero devono essere «finalmente bandite tutte le forme di schiavitù, di illegalità e di sfruttamento e dove ogni persona sia messa nelle condizioni di poter dare il meglio di sé senza essere schiacciata dalla burocrazia o dalle procedure». Per essere creativo è necessario che il lavoro sia «occasione per permettere a ciascuno di dare il meglio di sé dentro un’idea di innovazione che non è riducibile al solo aspetto tecnologico». Per essere partecipativo deve crescere «la consapevolezza che non c’è economia che possa prescindere dal contributo della persona umana». Per essere solidale, «non deve dimenticare che relazioni di reciproco riconoscimento e di alleanza tra soggetti diversi sono alla base di ogni vero sviluppo».
Senza dubbio questo «lavoro che vogliamo» si realizzerà sempre più e sempre meglio se crescerà l’impegno nel denunciare e bandire il «lavoro che non vogliamo».
Vengono indicate sei criticità per riassumere quale sia il «lavoro che non vogliamo». La prima è quella relativa al «rapporto tra giovani e lavoro, un tema che oggi rappresenta “la” priorità per rilanciare le prospettive socio-economiche del Paese. L’Italia ha ancora oggi il triste primato di essere il paese europeo con il numero più elevato di Neet (Not in education, employment or training): più di 2,2 milioni di giovani: un’intera generazione rischia di essere bruciata. Qualcosa che non può essere accettato».
La seconda è quella dell’alto rischio di precarietà lavorativa. Nell’Instrumentum vengono riportati i dati europei e nazionali ma si evidenzia in particolare il fatto che in Italia «nel 2016, per quasi due milioni di lavoratori a termine il contratto ha avuto una durata di meno di un anno e per circa mezzo milione inferiore ai 3 mesi».
Il terzo ambito del lavoro «non buono» è determinato dalla piaga del caporalato, «una forma di reclutamento illecito su cui si innestano forme odiose di sfruttamento».
La quarta criticità è individuata nel lavoro femminile che è «poco e mal pagato». «In Italia – si legge nel testo del Comitato scientifico – meno di una donna su due lavora e la disoccupazione femminile è più alta rispetto alla media europea». Inoltre, «in un paese in cui le ragazze con meno di 30 anni hanno un livello di istruzione superiore a quello dei ragazzi e nel quale esiste un gravissimo problema di natalità, la questione del lavoro femminile è cruciale».
Il quinto elemento critico è da individuare in «un sistema educativo che non prepara adeguatamente al lavoro». La scuola e l’intero sistema di formazione generalmente «non orientano adeguatamente i nostri giovani; non riescono a ricomporre la distanza fra formazione formalizzata e esperienza lavorativa; non garantiscono occasioni di formazione permanente, requisito ormai essenziale in un mondo che cambia in fretta e dove si vive più a lungo».
La sesta e ultima criticità deriva da «un lavoro pericoloso e malsano». E su questo tema viene tristemente citata anche la Sardegna: «I potenziali fattori nocivi legati al lavoro non colpiscono soltanto i lavoratori ma anche il territorio e la comunità circostante, come i casi di Taranto e del Sulcis dimostrano». E amara è la costatazione sul futuro: «Il rispetto da parte delle imprese dei vincoli di sostenibilità ambientale rimane un obiettivo ancora da raggiungere adeguatamente».
Queste criticità, a fine ottobre, saranno affrontate non secondo lo stile della sterile lamentela, ma partendo dalle tante esperienze di «lavoro buono» presenti nel territorio che sono state censite e analizzate dal progetto «Cercatori di lavOro» promosso dall’economista Leonardo Becchetti, membro del comitato scientifico.
Una domanda cruciale è posta al centro dello strumento di lavoro: «Che cosa si può fare dunque perché l’Italia si muova in questa direzione? Quali proposte possiamo responsabilmente avanzare per coinvolgere le singole persone di buona volontà, la comunità ecclesiale, le parrocchie, le imprese, i territori e, non ultime, le istituzioni?». Ed è proprio questo interrogativo che accompagnerà le delegazioni che si raduneranno a Cagliari.
Una cosa è certa. La 48ma Settimana sociale dovrà essere un’occasione opportuna per superare la rassegnazione e per innescare un vero cammino di conversione da cui possano nascere nuovi modelli di vita, di economia e di lavoro.
Giulio Madeddu
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