Le mie pecore ascoltano la mia voce IV domenica di Pasqua (anno c) - 17 aprile 2016
Dal Vangelo secondo Giovanni
(Gv 10, 27-30)
In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».
Commento a cura di Michele Antonio Corona
Il brevissimo brano evangelico di questa quarta domenica è tratto dal capitolo 10 del vangelo di Giovanni. È ben nota la prima parte, conosciuta come la pagina del buon pastore.
La sezione liturgica odierna ne è la continuazione naturale. Gesù risponde ad una domanda precisa dei giudei: «Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente».
Il dilemma dei giudei sembra essere lo stesso già sollevato da Giovanni Battista nel vangelo di Luca: «sei tu o ne dobbiamo attendere un altro?».
Certamente le intenzioni e gli obiettivi sono radicalmente differenti, ma la domanda è tutt’altro che illegittima. Ci si aspettava un Cristo, un Messia, deciso e forte che potesse ristabilire la giustizia in tutti gli ambiti e in tutti i campi della vita sociale, religiosa e politica. Il paradigma più adatto sembrava quello del capo politico o del condottiero o anche dell’integralista.
La radicalità della legge e la pretesa di un’esecuzione generalizzata pareva la soluzione a ogni problema. Anche oggi spesso, purtroppo, si crede che se tutti seguissimo la stessa direzione – religiosa, politica, sociale, culturale – si potrebbe vivere bene. Già nel libro della Genesi questo viene stigmatizzato con il racconto della torre di Babele: ci si raduna insieme per diventare uno.
Il Signore disperderà tutti favorendo la differenziazione, il pluralismo, la relazione personale e non di classe. Infatti, questo Nazaretano si identifica con un pastore che conosce le sue pecore e da la vita per loro e per ciascuna di loro. Al Battista aveva fatto dire che è proprio lui il Cristo dal momenti che ciechi, sordi, zoppi e muti riacquistavano le abilità mancanti e ai poveri era annunciato il vangelo.
L’annuncio evangelico non è un’attività da masse o da folle innumerevoli, ma è parola che unisce, rispetta, svela, comunica, condivide. La pluralità della parola evangelica non passa dalla fama o dalla gloria evidente, ma è come il lievito nella pasta.
In questa pagina giovannea il marchio della vera messianicità di Gesù è il rapporto col Padre. Tutto verte intorno all’importanza della relazione tra Padre e Figlio e nell’ascolto della sua parola. Il Figlio non è mercenario poiché il suo operare è innestato nell’unità tra Padre e Figlio.
La missione «pastorale» del Figlio non è motivata dal volontarismo, dalla caparbietà o dall’eroismo, ma è conseguenza di un rapporto di conoscenza e di ascolto. In questo senso, si può intuire in che modo il pastore conosce le pecore ed esse conoscono lui.
Il versetto appena precedente al brano liturgico recita: «Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore». Non si tratta di appartenere ad una cerchia elitaria o esclusiva, ma all’urgenza di ascoltare la voce del pastore. Usando una differenza molto inflazionata, si potrebbe dire che è dirimente comprendere quanto non basta «sentire la voce», ma la si debba «ascoltare». Se pensiamo ad un gregge che pascola in campagna ci rendiamo conto di quante voci e rumori possa sentire durante il giorno e la notte, ma la voce del pastore viene ascoltata perché ri-conosciuta. Nella prima lettura, l’esperienza di Paolo e Barnaba ad Antiochia viene presentata nei termini dell’ascolto: «tutta la città si radunò per ascoltare la parola del Signore».
L’ascolto diventa il cemento della comunità, poiché essa si sintonizza sul canale della Parola. Nei vari sommari iniziali degli Atti degli apostoli si ribadisce spesso la caratteristica della perseveranza nell’ascolto comune dell’insegnamento degli apostoli e delle Scritture.
Il ritornello del salmo responsoriale può essere considerato il compendio della liturgia della Parola: «Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida».
Con Gesù «essere pecore» non significa essere seguaci passivi di qualcuno, ma avere la responsabilità di conoscere e riconoscere la sua voce.
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