La morte non sarà mai un bene per l’uomo La triste vicenda del piccolo Alfie Evans
«Il suo papà l’aveva detto, “Alfie appartiene all’Italia”. Aveva detto così dopo la corsa dell’ultima speranza nel nostro Paese, il contatto con l’Ospedale Bambino Gesù e il colloquio con il papa Francesco. Adesso è vero, Alfie appartiene all’Italia, il nostro governo gli ha concesso la cittadinanza, Alfie è italiano».
Lo scrive il giurista Giuseppe Anzani, sul sito del quotidiano cattolico «Avvenire». La vicenda di Alfie Evans sta ancora una volta scuotendo l’opinione pubblica, non solo italiana, sulle delicatissime questioni legate al fine vita.
Mentre il giornale va in stampa, apprendiamo che il respiratore è stato staccato e che i genitori stanno tenacemente tenendo in vita il piccolo attraverso la respirazione bocca a bocca. «Che i medici inglesi dicano – scrive ancora Anzani – che non ci sia più nulla da fare se non staccare il respiratore e farlo/lasciarlo morire non è che il loro pensiero, la loro spugna gettata; ma se nel mondo altri medici, altri ospedali d’eccellenza offrono un altro modo di trattare il malato, di scrutare la diagnosi oscura, di proporre in ogni caso un accompagnamento di totale soccorso al bimbo e ai suoi genitori, impedirne il trasferimento è contrario all’etica medica».
Una doverosa precisazione da parte del giurista che sottolinea anche come «quel bimbo non appartiene all’ospedale, non è prigioniero di quel letto, anche se le notizie di una notte carica di angoscia parlano della determinazione a chiudere il caso con la morte del bambino».
Sulla vicenda strettamente umana e solidale si delinea anche il travaglio giudiziario.
«Ancor più incredibile ferita alla giustizia (ma no, più a fondo: all’etica del diritto) è – evidenza nel suo contributo scritto per «Avvenire» Giuseppe Anzani – la sequenza dei verdetti delle Corti. Tutte le Corti, basse, alte, di prima istanza, di appello, di grado supremo, tutte a dire che il bene, il bene del bambino è la morte. E i quadri di questa tragica recita sono stati incalzanti, rapidi, brevi, un ultimatum dietro l’altro. E la speranza dei due genitori (il bene, il loro bene, in una versione espulsa dall’aula) a rinascere ogni volta da quelle ripetute agonie e a tentare di nuovo il gradino più alto, la rupe più dura.
Fino alla Corte europea dei diritti umani, che fulmineamente “non ha ammesso”, non ha neppure ammesso che un’eco di quel grido ultimo giungesse nella sua sterile aula; non ha neppur provato a interloquire nel destino di Alfie e dei suoi genitori con una parola di chi sa cos’è il dolore».
Anzani parla di aspetto disumano intorno a questa vicenda: l’incrudelimento «verso due genitori provati già da un immenso dolore». Un giudizio netto e ampiamente condivisibile. «Se – prosegue nella sua analisi il giurista – la sintesi dello stato di salute di Alfie, incrostata nella definizione delle aule giudiziarie, è quella di “condizione neurodegenerativa catastrofica e incurabile (untreatable), progressiva”, strapparlo alle braccia dei genitori che cercano le cure dell’estrema speranza altrove, fosse in capo al mondo, è una pugnalata al diritto familiare. E se pure accadrà che nessuno salverà quel figlio, se non un miracolo, è già miracolo questo amore che non s’è arreso».
Alfie è insomma «figlio nostro: ma è già figlio del mondo. Restano in noi e nel mondo amore e sofferenza insieme: non chiameremo “giustizia” una gelida violenza che espropria la vita d’un figlio. Quand’anche le cure non vincano la morte, le danno altro senso mentre danno senso alla vita».
Andrea Pala
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