Una Pasqua di speranza in Palestina Per l’archimandrita Abdallah Iulio, guida della chiesa melchita di Ramallah, i cristiani arabi continuano a credere nella fine della sofferenza causata dall’occupazione israeliana
L’archimandrita Abdallah Iulio è il parroco della chiesa melchita di Ramallah, in Palestina. Italiano, originario di Roma, all’anagrafe Giulio Brunelli, da 30 anni è in Medio Oriente, dove lo abbiamo raggiunto telefonicamente per raccontarci come la sua comunità si prepara alle prossime feste pasquali. «Viviamo — dice — una lunga passione come popolo oppresso, ma siamo certi che arriverà la resurrezione».
Il riferimento è alla condizione che gli arabi cristiani stanno da troppi anni vivendo in quella zona. «Prima dell’occupazione israeliana —continua — i cristiani arabi erano il 35% della popolazione. Oggi si arriva al massimo all’1%. È il segno che il nostro destino è stato segnato da scelte che arrivano da lontano, da chi vuole un occidente totalmente cristiano e un mondo arabo privo della presenza cristiana. L’essere minoranza non è dunque un caso ma una scelta che abbiamo subito».
La Pasqua è la festa principale dei cristiani, perché in questa celebrazione è racchiuso tutto il messaggio cristiano. «Tutti — continua il parroco — sappiamo che Cristo è stato condannato messo in croce, poi però è risorto. La condizione del mondo arabo, specie quella del popolo palestinese, è molto simile, perché soffre ancora ed è in attesa di una resurrezione che assume un significato speciale. Per questo celebrare la risurrezione per noi significa vivere una speranza. Nella Chiesa orientale quando celebriamo la Pasqua non diciamo “Auguri, buona Pasqua” ma “Cristo è risorto” e le risposta è “Sì è veramente risorto”. Nella Chiesa orientale, soprattutto quella ortodossa, c’è un esperienza molto forte per la festa della resurrezione. Per chi soffre a causa di una situazione di passione sapere che la speranza avrà la meglio sulla morte, offre una chiave di lettura al dolore vissuto dalla nostra popolazione».
La testimonianza dell’arabo cristiano e del palestinese diventa così importante, proprio perché si tratta di una realtà molto travagliata. «Dobbiamo dire — aggiunge ancora l’archimandrita — che per quanto possa essere lunga questa nostra notte araba, fatta di conflitti di problemi e di ogni altra cosa negativa, su tutte l’occupazione israeliana, c’è una speranza di resurrezione. Anche per il popolo palestinese speriamo presto arrivi il momento della Pasqua di liberazione».
Gli arabi, in Palestina, sia musulmani che cristiani, hanno convissuto in pace. «Ancora oggi — dice il parroco — pur essendo diverse comunità si sentono un unico popolo, un’unica storia, e credono in un unico avvenire che ci rende un’unica famiglia. Le Chiese d’oriente non sono la testimonianza di un passato, la cui storia si è oramai conclusa, ma siamo un pezzo di questo popolo. Non siamo una minoranza che sta tra l’Occidente e l’Oriente, ma parte integrante della popolazione araba: siamo in Siria, in Libano, in Palestina, in Iraq, in Giordania. Qui a Ramallah, una città importante dove cristiani e musulmani convivono pacificamente, come in altre città della Palestina, c’è stato un accordo per il quale celebriamo il Natale secondo il calendario gregoriano e la Pasqua secondo quello giuliano. I riti vedono da una parte le celebrazioni vere e proprie dall’altra anche una parte di festa».
I momenti più importanti sono la domenica delle Palme, con una grande processione alla quale partecipa una gran parte degli abitanti della città, uniti per l’occasione e poi la cosiddetta «Processione della Luce» del Sabato Santo, nel corso della quale la luce del fuoco viene portata per le vie da tutte le comunità cristiane.
«Tutti — conclude — vengono in processione: sindaco, prefetto e gente comune, uniti nel nome della fede in un unico Dio. Il sabato della luce è un giorno di speranza che noi, nonostante tutto, continuiamo a coltivare. Questo è il messaggio che ci piace far giungere da Ramallah e dalla Palestina».
Roberto Comparetti in collaborazione con Luca Foschi
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