Dove due o tre sono riuniti nel mio nome sono in mezzo a loro XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A)
Dal Vangelo secondo Matteo
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».
Da questo numero sarà don Enrico Murgia, segretario arcivescovile, a commentare il Vangelo. Il grazie a Fabrizio Demelas per il servizio offerto nelle settimane prima della pausa agostana.
Commento a cura di Enrico Murgia
Nella celebrazione dell’eucaristia, proprio all’inizio, la Chiesa, da sempre ci invita a riconoscere davanti a Dio di essere tutti peccatori e come il pubblicano al tempio, (così recita una delle formule penitenziali del Messale) aprire il palmo della mano battendoci il petto in segno di pentimento.
È lo Spirito Santo ad aprire gli occhi del nostro cuore perché possiamo riconoscere le nostre colpe alla luce della parola di Gesù.
È lo stesso Gesù che ci invita tutti, buoni e cattivi, alla sua mensa raccogliendoci dai crocicchi delle vie del mondo (cfr. Mt 22,9-10).
Tra le situazioni che rendono simili i partecipanti all’assemblea eucaristica, almeno due sono primari, decisivi e fondamentali: sono tutti peccatori e a tutti Dio fa dono della sua misericordia.
Non è male ricordarlo prima di recarci dal fratello per la correzione fraterna.
Essere fratelli significa essere responsabili. Nella comunione tra fratelli si esprime l’amore che non è mosso dal desiderio di possedere, ma di appartenere e di assumere l’altro nella sua libertà e nel suo peccato.
La fraternità, infatti, si ha quando ciascuno scopre la propria profonda vulnerabilità e si affida; quando la parola non insiste per conquistare e vincere, ma per offrire un luogo di accoglienza e di perdono.
Il capitolo 18 di Matteo, è tradizionalmente conosciuto come «il discorso ecclesiale» e i versetti proposti per questa domenica, sono certamente tra i più difficili ed esigenti di tutto il discorso.
Vengono infatti proposte delle iniziative che non annientano, ma che recuperano «il fratello che pecca».
Sì, perché ad essere leso non è solo il singolo, ma anche la comunità.
È questa a doversi mettere in discussione, a doversi umilmente chiedere come edificarsi e come edificare il proprio fratello e la propria sorella.
Dunque, l’intento ultimo non è un procedimento disciplinare, una sanzione o una punizione, quanto piuttosto il recupero del prossimo per mezzo della riconciliazione.
Dentro questo discorso ecclesiale, Matteo offre l’indicazione del «portare» opposta a quella del giudicare.
Responsabili gli uni degli altri per portarne vicendevolmente i pesi, con la propria storia, il proprio limite, il proprio peccato, la propria fragilità, ma con la consapevolezza che l’amore e la Grazia del Risorto quando riconosciute vincono e superano ciò che è nocivo e deleterio nella nostra vita e in quella altrui.
Il Vangelo ci aiuta a misurarci con un senso del peccato che non è detto sia immediatamente il nostro, essendo la nostra coscienza così povera.
Quando ci confrontiamo con il suo amore e con quello che lui chiede, che è sostanzialmente essere liberi dal male tanto da amare i nemici, ecco, allora capiamo, spesso dolorosamente chi siamo.
E sentiremo finalmente l’amore che ci raggiunge e ci libera. È la grazia.
Non è un caso, infatti, che il passo è collocato da Matteo dopo la parabola della pecora smarrita.
La preghiera comunitaria richiamata in conclusione, viene presentata come concordia ritrovata, come l’essere d’accordo, all’unisono appunto.
Si comprende meglio allora, come, in definitiva, ciò che conta è l’amore e le leggi della comunità ecclesiale hanno veramente senso solo se ispirate dall’amore che riceviamo da Dio, e non da quello apparente che pensiamo di procurarci autonomamente e che finisce spesso per rivelarsi egoistico.
© Copyright Il Portico