Diseguaglianza che uccide: i poveri muoiono prima
I dati dell’Istat segnalano un incremento dei decessi per chi ha gradi bassi di istruzione
Diseguaglianza che uccide.
Una tendenza che dovrebbe far riflettere: man mano che cresce il titolo di studio diminuisce la frequenza dei decessi.
Quindi, a parità di età, chi ha studiato meno ha più probabilità di passare a miglior vita.
Lo rivela l’Istat, i cui dati indicano come titolo di studio e disponibilità economica possono allungare la vita media delle persone.
Per capire meglio è sufficiente analizzare i numeri del 2020, quando le malattie legate al sistema cardiocircolatorio nella fascia d’età 30-59 anni, hanno provocato il decesso di 12,5 uomini ogni 10mila abitanti, in possesso al massimo della licenza elementare, dato sceso a 9 ogni 10mila abitanti tra chi possedeva la licenza media, a 7,2 per il diplomato e a 5 per chi era almeno laureato, meno della metà rispetto a chi aveva un titolo di studio più basso.
Per le donne si è registrata una forbice maggiore, se pur con tassi inferiori: da 4,7 decessi ogni 10mila abitanti per persone in possesso della licenza elementare a 1,7 per le laureate, quasi 3 volte di meno.
I dati si riferiscono al 2020, anno pandemico dirà qualcuno, ma le cose non erano diverse nel 2019, questo perché il titolo di studio, secondo l’Istat, è fortemente collegato alla disponibilità economica. Il reddito è poi correlato all’adozione di determinati stili di vita e alle opportunità di accesso alle cure.
Ad ogni gradino di istruzione verso il basso o verso l’alto, c’è una significativa crescita o decrescita della mortalità.
Il titolo di studio diventa quindi strumento di prevenzione sanitaria, perché si ha maggiore disponibilità nell’acquisto di cibi di migliore qualità, si possono portare avanti attività motorie, frequentare palestre, piscine o impianti sportivi, che hanno un costo, così come mantenere stili di vita più sani rispetto a chi invece deve far quadrare i conti e fa fatica a mettere insieme pranzo e cena.
Sullo sfondo resta comunque il dato più inquietante: basso titolo di studio e ridotta capacità economica portano ad avere maggiori problemi di salute.
Insomma una diseguaglianza che uccide.
A conferma che nel nostro Paese c’è un serio problema di esclusione sociale, arrivano i dati di una ricerca delle Acli su «Povere famiglie.
L’impatto dell’inflazione sui redditi degli italiani», realizzata dall’Osservatorio nazionale dei redditi e delle famiglie, in collaborazione con il Caf Acli e l’Iref.
Secondo i dati diffusi, aumenta il numero di famiglie entrate in povertà relativa.
I modelli delle dichiarazioni dei redditi del 2020 hanno registrato l’8,2% di famiglie povere, dato che scende nel modello 730/2021, quando la percentuale si attesta al 7,6%.
Un calo, secondo le Acli, dovuto in parte alla deflazione degli anni del Covid e in parte alle politiche di salvaguardia dei redditi dagli esiti del lockdown.
L’inflazione ha però eroso il leggero recupero di potere di acquisto, facendo perdere centinaia di euro annui alle famiglie.
Nella dichiarazione dei redditi del 2023, le famiglie in soglia di povertà relativa sono passate dal 7,6% al 9,8%, segno che le difficoltà sono cresciute, senza che ci siano stati provvedimenti capaci di venire incontro a chi vive una condizione di reale necessità.
In una regione come la nostra, dove il numero di laureati è decisamente sotto la media dell’Unione Europea e le percentuali di abbandono scolastico sono altissime, c’è di che preoccuparsi: il rischio è che il numero dei decessi continui a crescere.
Roberto Comparetti
Diseguaglianza che uccide.
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