Chi crede in Lui non è condannato Domenica dopo Pentecoste - Santissima Trinità (ANNO A)
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
(Gv 3, 16-18)
Da questo numero sarà padre Piergiacomo Zanetti, gesuita della Facoltà teologica, a commentare il Vangelo. A padre Gabriele Semino il grazie per il servizio offerto nelle scorse settimane.
Commento a cura di Piergiacomo Zanetti
All’uomo sono poste le chiavi della vita e della morte: a lui vivere la vita o tagliarsi fuori da essa. Quale forza, quale bellezza, quale opportunità è consegnata all’uomo! Quale dignità! L’uomo stesso è capace di decisioni. E può condannarsi da solo.
La condanna è quella di non voler vivere l’esistenza che gli è proposta e squadernata dinnanzi agli occhi, ogni giorno. Per quale ragione?
Il passo che l’evangelista Giovanni invita a compiere è proprio quello della consapevolezza, con una semplice domanda: com’è la mia vita? Si azzarda una risposta: forse «vuota» oppure «gioiosa»?
Nel primo caso c’è il rischio di una risposta affermativa: è «vuota» davvero. L’uomo, intimorito dal vedersi per come la sua esistenza è, continua a mentirsi. Ha paura di rischiare, negando la verità della realtà (interiore e spirituale) che vive. Se invece accettasse di vederla e, osservandola, arrivasse al desiderio di parlare della propria situazione con qualcuno che ha vissuto e conosce (spiritualmente) la fragilità dell’umanità, tutta, sarebbe l’inizio della sua «ri-uscita». È l’inizio di una comunità, la fine di un’apnea che per troppo tempo l’ha tenuto imbrigliato nella fuga, al non vivere l’esistenza.
Nel secondo caso, invece, le persone ferite dalla vita non credono sia (più) possibile vivere la «gioia», la serenità e la bellezza di un’esistenza. Disilluse dalle esperienze fatte e dai tradimenti vissuti, anche loro temono il rischio di fallire o di rischiare di nuovo. Non sanno cos’è la grazia che tutto perdona, tutto sopporta, tutto supera. E ridona vita. Abituati a una società del merito o dell’essere fregati o della raccomandazione, non sappiamo più cosa sia un bicchiere d’acqua dato liberamente, che rinfreschi davvero: come quell’acqua fresca che, da bambini, al termine di una partita di calcio, ci faceva gustare un rubinetto dissetante posto al centro di un cortile.
Il vangelo di Giovanni ci mostra dunque la pienezza e la non pienezza della vita, e ci domanda: ma tu la vivi davvero? La vivi appieno? Dio ama il mondo, ama ciascuno di noi. Si offre così: gratis, come l’acqua, donando pace e gioia. Da queste dimensioni presenti in noi, lo scopriamo presente. Ci offre una prospettiva diversa dalla solita, del nostro vedere e guardare.
Noi vediamo solitamente le cose dalla terra, notiamo l’accadere dai nostri occhi, dalle nostre convinzioni cocciute e incrostate, dai nostri risentimenti, rammarichi e spergiuri. Invece qui l’evangelista ci pone sulle spalle di Dio e ci fa scorgere il mondo dalla sua prospettiva, mostrandoci gli avvenimenti come li osserva un bimbo in braccio a suo padre (o sua madre): con quella bellezza e certezza di essere tranquilli, sollevati e al sicuro in un abbraccio. Nessuno ci farà del male, né potrà. Un Padre che non ci consegna alla disperazione, al non senso, all’angoscia dell’esistenza, ma che ci rivela che ogni cosa creata ha un senso, è capace di gioia, ed è sempre alla tua portata.
Come un Padre ha fatto scendere suo figlio scalpitante dalle spalle, affinché giocasse con gli altri bambini, in quel cortile − con gli altri figli, tutti noi − così noi stessi, osservandolo nel giocare e nel ritornare verso il Padre, troviamo la via per ritornare a casa, a quell’abbraccio che ci attende, sempre. Benvenuta semplicità.
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