Cammini di solidarietà nel carcere di Uta
Un modo diverso di raccontare la realtà che viene vissuta all’interno dalla Casa circondariale
Cammini di solidarietà nel carcere di Uta.
L’universo che ruota attorno al mondo carcerario è fatto di costellazioni politiche e sociali che spesso rischiano di evidenziare unicamente gli aspetti negativi a scapito del lavoro spesso intenso e nascosto di quanti ogni giorno si dedicano alla non semplice opera di rieducazione e risocializzazione di coloro che si trovano ristretti negli Istituti di pena.
Viviamo in una società dove il clamore mediatico dei fatti negativi assorbe quasi totalmente il silenzio discreto e fruttuoso di coloro che lavorano con impegno e sono spesso i veri costruttori di una società migliore.
La frase attribuita a Leozi, filosofo cinese del 300 a.C., è sempre attuale: «Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce».
Proprio così.
Del mondo carcerario si evidenzia il numero crescente dei suicidi, il problema del sovraffollamento, la carenza di personale a tutti i livelli, educativo, sanitario, della Polizia Penitenziaria… dimenticando spesso l’impegno di riconciliazione e rieducazione di uomini e donne che hanno sbagliato e che hanno intrapreso cammini di solidarietà, di fraternità e di giustizia riparativa.
Sandro è un detenuto nella casa circondariale di Uta che partecipa attivamente al cammino sinodale. In un suo scritto esprime l’impegno educativo di tutto il gruppo che, in questa fase, sta tentando di stabilire con gli altri detenuti delle relazioni di amicizia e di condivisione che si traducono poi in «piccoli cambiamenti», in scelte di bene e di aiuto reciproco.
«Attualmente – scrive Sandro – stiamo provando ad analizzare quali siano le eventuali possibilità all’interno del carcere che ci consentano di dare una mano di aiuto con un conforto morale a chi ne ha bisogno».
«Ovviamente non sarà un compito semplice da attuare perché dovremo toccare l’anima di uomini che stanno vivendo un periodo della loro vita abbastanza difficile, se non terribile, ma noi ci proveremo con tutte le nostre forze, e lo faremo avvicinandoci a loro, mettendo allo scoperto anche le nostre anime per trasmettere quelle giuste emozioni che possono mettere in moto i loro cuori e i loro cervelli attraverso la forza che Dio darà loro quando questi proveranno a rinascere nello spirito».
A livello «operativo» emerge un approccio molto concreto e molto umano nel rapporto con gli altri detenuti che, spesso, portano nella loro storia esperienze di dolore, di sfiducia, di sconforto.
«Ai nostri compagni di sventura – continua Sandro – non daremo soluzioni con frasi fatte per risolvere i loro sbagli, ma diremo loro che dovranno andare oltre a quello che si vede e ascoltare di più il loro cuore, quel cuore che saprà lenire tutti i dolori del mal di vivere che ognuno porterà dentro di sé per tutto il corso della vita».
La fede è sempre il punto di partenza di ogni esperienza di «incontro» che vuole essere in sintonia con i valori del Vangelo ed è quanto emerge nella conclusione della lettera di Sandro.
«Sarà bello – scrive – sentire che Dio ci sarà ogni volta che gli chiederemo la forza necessaria per superare tutti gli ostacoli, anche quelli che a volte sembrano insuperabili. E sarà bello commuoverci quando ci renderemo realmente conto che Lui c’è davvero, dentro di noi».
Andrea ci confida che ha continuato a partecipare agli incontri nonostante tutti i problemi e pensieri che un detenuto di 35 anni, genitore di due figli, e con un passato di tossicodipendente può avere.
«Oggi – scrive – posso dire grazie anche al cammino fatto insieme che mi ha permesso di riprendere in mano la mia vita. Ringrazio i miei compagni di sezione che mi hanno avvicinato e mi hanno invitato a partecipare; della mia sezione siamo sei ragazzi e io sono il più giovane. Il più “maturo” ha settant’anni… ma tutti insieme ci ascoltiamo e ci scambiamo opinioni e pensieri, ragionando insieme su molti punti ecclesiastici, carcerari, personali».
«Anche in carcere vivono uomini figli di Dio – continua Andrea – e io, una volta terminata la mia carcerazione non vivrò con il pregiudizio o con l’etichetta che la società ti mette addosso, ma cercherò di vivere come uomo che ha sbagliato, che ha pagato il suo sbaglio, che si è perdonato e ha chiesto perdono a Dio».
La testimonianza di Andrea ci aiuta a comprendere quanto sia importante essere aiutati da persone che vivono la stessa difficile situazione di vita.
È impressionante cogliere questi rivoli di fraternità e di vita all’interno delle mura di un carcere, dove detenuti aiutano altri detenuti in virtù di un’esperienza ecclesiale che ha parlato ai cuori aiutando ciascuno a comprendere che possiamo edificare la chiesa incontrandoci e prendendoci cura gli uni degli altri, a partire dal vissuto che ciascuno porta con sé.
Sicuramente il servizio silenzioso offerto dalla presenza della Chiesa in carcere e il coinvolgimento delle persone detenute, può essere colto come un segno di missionarietà che ci fa sentire tutti responsabili della vita e del cammino degli altri.
Don Gabriele Iiriti – Cappellano Casa Circondariale -Uta
Cammini di solidarietà nel carcere di Uta.
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