Emergenza educativa: puntare su legami sani Parla Alessio Onnis, educatore in una casa di accoglienza per minori
«Mai abbassare la speranza». Ne è convinto Alessio Onnis, educatore in una comunità per minori, in riferimento alle notizie di cronaca con protagonisti in negativo i giovani. «L’emergenza educativa – afferma – è sempre stata tema di grande attualità. Ciononostante ci troviamo oggi effettivamente coinvolti in uno scenario davvero inquietante, specie per il grado di inconsapevolezza emotiva che lo accompagna, specchio di una società regno del “tutto è possibile” in cui non si sa come formare le giovani menti al senso del limite.
Mi è capitato di incontrare di recente lo sguardo di un ragazzo che aveva appena ferito un’educatrice, e di cogliere per un attimo nei suoi occhi persi e sfuggenti una desolante disperazione. Era uno sguardo triste per l’incapacità che ne scaturiva di non riuscire a esprimere cosa stesse provando in quel momento: una barca in un mare agitato senza ancora. Era un ragazzo senza padre e nessun rispetto per la figura femminile. Ma quale orfanezza diffusa mi ritrovo ogni giorno a “trattare” anche nei ragazzi che pur un padre ce l’hanno.
Viviamo non solo l’epoca dell’evaporazione del padre, ma anche “L’Epoca delle passioni tristi”, come l’ha definita Miguel Benasayag, filosofo e psicanalista argentino, che invita ad interrogarsi su quale strategia educativa converrà perseguire per prevenire questa deriva inesorabile. La risposta: di fronte al dilagare di queste passioni tristi, che caratterizzano l’esistenza dei nostri ragazzi, sempre più abbandonati ai loro nulla affettivi e digitali, dobbiamo corredarci di una prassi educativa governata dalle passioni gioiose: solo i legami sani salvano.
Cosa significa?
Solo la gioiosa passione può veramente conquistare il cuore dei ragazzi. Il punto è: come si fa a riempire il serbatoio quotidiano di passioni gioiose per arrivare a varcare la soglia di quell’aula scolastica col sorriso sul volto? È questa la grande responsabilità.
Già Socrate esortava a quella cura di sé che si pratica in un lento e progressivo cammino di ascesi e addita un percorso complesso, non certo riferito ad un’individualità chiusa ed egoista ma tutto proteso verso l’universale esistente in ogni singolo uomo. Si gioca tutto in uno sguardo che sa osservare e sintonizzarsi empaticamente col ragazzo, ma allo stesso tempo non si aspetta nulla da lui. Ci si apre all’accoglienza dei suoi bisogni con grande umiltà e rispetto per la conquista della propria libertà. E poi c’è il lavoro di squadra: “Quello che so fare io tu non lo sai fare, quello che sai fare tu io non lo so fare, ma insieme faremo cose grandi” come diceva Madre Teresa.
Difficile quindi fare l’insegnante?
Per gli educatori improvvisati e tanto più per gli insegnanti sguarniti di strumenti educativi e tendenti all’isolamento sono tempi duri, destinati ad essere sbranati dal branco. Va detto che tutti possono insegnare, cioè “lasciar segno nell’anima di un ragazzo” (anche l’Isis ha la sua pedagogia), ma non tutti possono svolgere la professione dell’insegnante. L’insegnamento come l’educazione è un’arte, è una professione diversa dalle altre, né migliore né peggiore, particolare perché “è un fatto di cuore” come diceva don Bosco. Richiede quindi passione, attenzione, flessibilità e capacità di adattamento, voglia di migliorarsi e di superare criticità e momenti di stallo. Ma vorrei dire di più: il cuore, cioè il motore di ogni evento educativo, serve quanto basta ma non è sufficiente. Occorrono competenza e padronanza delle situazioni, controllo e conoscenza di strategie e metodologie efficaci, non solo didattiche ma di gestione dei gruppi, di educazione sessuo-affettiva.
Quale è il ruolo delle famiglia in situazioni di questo tipo?
Parlando da genitore sul ruolo che dovrebbe avere la famiglia dico che non bisogna mai abbassare la speranza, perché il guaio più grosso sarebbe smettere di credere nella scuola, negli insegnanti e nei nostri figli. Disattendendo le nostre responsabilità si espone la propria vita e quella delle persone a noi affidate a collezionare insuccessi che non possono certo giovare alla propria salute, all’autostima dei ragazzi e al futuro della società. Mai aizzare i propri figli contro gli insegnanti, mai esprimere valutazioni. Un buon genitore deve saper oscillare tra presenza, che non è certo quella del “Grande Fratello”, e distacco, tanto quanto basta, per consentire ai figli di crescere assumendosi le proprie responsabilità.
Roberto Comparetti
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